Testi Critici

Federico Moccia

Federico Moccia
Scopri cosa ne pensa di Fritz...

Stefano Festa

Stefano Festa
Scopri cosa ne pensa di Fritz...

Luigi Senise

Luigi Senise
Scopri cosa ne pensa di Fritz...

Federico Moccia

L’arte è un incontro. Mette di fronte chi crea e chi osserva, ascolta, fruisce. Li stimola a comunicare, a volte in estemporanea, altre in differita. È un dialogo costante, ripetibile ma sempre nuovo. Non si può entrare due volte nello stesso fiume, diceva Eraclito, a indicare che il fiume, i suoi argini, in apparenza erano sempre uguali a se stessi ma l’acqua scorreva e dunque cambiava di secondo in secondo. Lo stesso vale di fronte a un’opera d’arte. Le sensazioni che ci dà cambiano ogni volta a seconda del nostro stato d’animo. Così possiamo stupirci, commuoverci, riflettere, ricordare, aggiungere qualcosa a questa conversazione costante, eterna e sempre diversa tra noi e l’arte.

Fabrizio D’Ottavi è un Maestro d’Arte. Certificato. Ma non è tanto la carta a dirlo, quanto la sua stessa vita, testimonianza di una ricerca costante, di una curiosità allegra e attenta che lo spinge a sperimentare sempre. A chiedersi cosa accade spostando l’asticella sempre un po’ più su. Un artista che ti prende in contropiede. Lo fa partendo dal dato concreto, reale. Dalle cose. Oggetti di vario genere si svestono dei ruoli quotidiani e consueti e diventano occasione di contatto. Non si nascondono trasfigurandosi, continuano a chiamarsi col proprio nome ma giocano a parlare, a dirci un mondo di sfumature che ci erano sfuggite. Sarà perché Fritz, il suo nome (guarda caso) d’arte, ha cominciato anni fa a collezionare il cosiddetto modernariato, oggetti quotidiani del recente passato. E non si è trattato a mio avviso di passione verso il retrò, il vintage fine a se stesso. Piuttosto è stata la voglia di non dimenticare, di capire da dove veniamo partendo da quello che usiamo normalmente. La vita vera.

Tecnicamente con modernariato si intendono mobilia e oggettistica che va dai primi del Novecento fino alla seconda metà del XX secolo, periodo in cui nacque anche l’Art Deco, che ha combinato vari stili e, negli anni sessanta, l’affermazione dello stile lineare e essenziale dei mobili nordici, disegnati da architetti danesi, norvegesi, svedesi. Ma il modernariato è anche gusto e costume più in generale: mobili, libri, riviste e altro. Fritz si tuffa in tutto questo e lo sporca di sé. Ce lo restituisce in opere originali ed emozionanti, capaci sempre di pungolare la nostra attenzione in maniera costante e rinnovata. Gli oggetti normali diventano arte speciale. Perché l’arte fa così, ci prende in contropiede, appare dove non ce l’aspettavamo, sposta il limite sempre un po’ più in là, è una disciplina indisciplinata perché sostituisce il certo col relativo.

Qualcuno potrebbe dire che Fabrizio D’Ottavi sia un figurativo. Per me è un abile smaterializzatore. Ci spiazza affinché possiamo ripartire dalle sue opere a modo nostro, interagendo senza subire. E l’operazione diventa più semplice proprio perché si parte dal dato concreto della realtà.

Picasso una volta disse “Dopo tutto un’opera d’arte non si realizza con le idee, ma con le mani”. E quelle mani, Fabrizio, sa usarle proprio bene. Anche quando reinterpreta le illustrazioni di Norman Rockwell, già di per sé eccezionalmente comunicative. Nostre. Parte dell’immaginario collettivo. Il suo tratto è per tutti noi immediatamente riconoscibile. Un amico d’immagini. Un fotografo col pennello. Una stanza in cui ci sentiamo a nostro agio. Rockwell cominciò giovanissimo a disegnare copertine di riviste famosissime (ad esempio il Saturday Evening Post) e, facendolo, ha raccontato l’America. Lo ha fatto per tantissimo tempo, dal 1916 al 1976. Un artista fedele a se stesso che ha guardato con amore e freschezza la realtà. Lo stesso approccio di Fritz.

Per questo lo ama molto e lo cita. Perché ne apprezza lo stile e il fatto che ha fotografato la vita quotidiana di un’intera epoca. Perché Rockwell illustra noi.

Proprio noi, colti in mille sfaccettature. E Fabrizio, prima in acrilico su legno e poi a olio su tela, ha riprodotto quelle trascrizioni fedeli e poetiche della realtà, consapevole di quanto sia complesso far sembrare intensa e ironica, semplice e lirica la banalità delle nostre azioni giornaliere.

Fritz ha omaggiato Rockwell in una personale a Roma nel 2004, una delle tante esperienze che costellano la sua carriera artistica, fatta di mostre, laboratori, botteghe. Un artista che impara sempre qualcosa di nuovo.

Che si sporca le mani. Perché come dice W. Gropius “in rari momenti l’ispirazione e la grazia dal cielo, che sfuggono al controllo della volontà, possono far sì che il lavoro possa sbocciare nell’arte, ma la perfezione nel mestiere è essenziale per ogni artista. Essa è una fonte di immaginazione creativa”.

Se volete stupirvi, se volete disubbidire allo sguardo solito sulle cose, se volete scoprire come fa l’arte a diventare pane quotidiano, sedia, valigia, triciclo, banco di scuola, tazza di tè, macchina fotografica, azione cercate Fabrizio D’Ottavi.

Di quest’anno (2010) è l’esposizione delle sue Collezioni di Modernariato in pittura presso Spazio Novecento, nella sua città, a dimostrazione di come per lui l’approccio artistico sia quasi ciclico, fatto di vecchie passioni che tornano, mai dimenticate, per essere contaminate con ciò che nel frattempo D’Ottavi ha respirato e vissuto.

Arte che non ha paura di cambiare espressione per corrispondere sempre al meglio allo stato d’animo attuale di chi la crea. È cresciuto nella grafica e nella scenografia, ma il vero salto tecnico artistico lo deve alla scuola della Pittrice Elena Tommasi Ferrone, una grande Maestra d’arte che nel suo studio a piazza Spada ha colmato lacune del giovane artista e spronato la sua arte. Ecco chi è Fabrizio D’Ottavi.

Un uomo che fa costante amicizia col suo essere artista, riscoprendosi di continuo. Perché “l’artista non è un tipo speciale di persona, ma ogni persona è un tipo speciale di artista” (Ananda K. Coomaraswam).

 

Federico Moccia

Stefano Festa

È sempre un piacere parlare d’Arte, in questo momento poi dove la società è quasi completamente impegnata a risolvere problemi materiali noncurante che forse potrebbe farlo in modo più completo e duraturo se coinvolgesse anche quelli artistico - spirituali. Devo innanzi tutto dire una cosa: bravo Fabrizio… Complimenti!!

Sembrerà banale ma… vi assicuro che non lo è affatto. Chi scrive è dagli anni ‘70 (dall’età di 12 anni) che vive e opera nel settore artistico e, tranne qualche rara eccezione, negli ultimi decenni difficilmente ci si ferma a osservare qualcosa che colpisca e che rapisca la nostra curiosità.

Le opere di Fabrizio D’Ottavi sono opere non solo pittoriche, che ne limiterebbero il piacere della lettura, ma sono una sorta di quadri-memoria che in ognuno di noi è presente e che grazie alla lettura delle sue opere, come d’incanto, torna a noi. Questa è l’emozione più bella che mi stimola l’opera di Fabrizio D’Ottavi. Certamente la qualità pittorica, il suo stile, la padronanza del colore, delle luci dei toni… ecc. non si discutono ma… non vorrei limitare a questo il suo operato d’Artista.

Ho letto che lo hanno definito un seguace dell’Iperrealismo (Il fotorealismo o iperrealismo è un genere di pittura basato sulla riproduzione di un soggetto fotografico. Il termine è principalmente applicato ai dipinti realizzati negli Stati Uniti alla fine del 1960, inizi 1970) e so che a tal proposito ha seguito un’ottima scuola, lo si evince dai risultati ottenuti, ma… credo che Fabrizio debba quanto prima uscire dal bozzolo, e che bozzolo, e cominciare a volare… mostrando le sue ali e i suoi stupendi colori. Dico questo perché penso che abbia dentro di sé una voglia matta di fare… il cambiamento, quando proiettato verso il meglio, è sempre positivo denotando intelligenza creativa e lui, ne sono convinto, è lì… pronto a farlo.

Come per molti artisti necessita di un po’ di tempo per capire bene quale sarà il suo prossimo percorso, ma sono sicuro che quando inizierà il suo nuovo cammino verso una trasformazione… anch’egli si stupirà del suo “fare”.

Ognuno nelle opere qui esposte ne può elogiare la bellezza, la precisione, la pulizia… l’abilità pittorica, quindi Fabrizio non ha bisogno di una vera e propria critica, lui sa che chiunque dentro di sé la farà… negativa o positiva, il libero arbitrio credo sia sempre la cosa migliore. Personalmente elogio il suo modo di dipingere con questi sfondi che mi ricordano un po’ il Merisi che permettono agli oggetti di emergere ma principalmente per i contenuti che sono contenuti universali e di alto spessore.

Se Fabrizio me lo chiedesse credo potremmo, su ogni singola opera, parlare per ore e dico pubblicamente senza mai cadere nel banale. Dico questo perché il più alto elogio che ho fatto a Fabrizio D’Ottavi e che qui confermo è stato proprio questo, il fatto cioè di stimolare un pensiero che ci porta inevitabilmente alla nostra infanzia e da lì… magicamente… dopo un percorso, per ognuno diverso, torna alla realtà… ai giorni nostri.

Grazie Fabrizio che con queste opere ci permetti ancora di sognare e usare, per coloro che lo possiedono, quella parte di cervello che spazia fra il sogno, il passato e la realtà, quindi il futuro, facendoci tornare tutti bimbi-adulti.

Concludo ricordando una frase che lessi molti anni fa e che non ricordo chi la scrisse ma ricordo bene il concetto… che dice… ”grande saggio è colui che mantiene in sé l’animo del fanciullo”.

 

Stefano Festa

Luigi Senise

La natura morta è un genere pittorico che raffigura vivande ed oggetti ordinati, sovente sopra un tavolo, ed effigiati con una precisione lenticolare. In lingua inglese, non per caso – e più opportunamente – simile genere pittorico è chiamato “still life”: ancora vivo. V’è già un sospiro poetico nelle definizione: poiché il genere pittorico in questione eterna ciò che figura sulla tela, ne estende l’esistenza non in senso naturale, ma simbolico.

Fabrizio D’Ottavi è collezionista di modernariato, di oggettistica, di cimeli del primo e del secondo Novecentoelmetti del secondo conflitto mondiale e burattini lignei, palloni da foot-ball americano e tricicli, e così via.

Egli adotta una tecnica misurata, concisa e iperrealista, che tende all’imitazione del reale, superandone la percezione naturale, con una resa “ad alta definizione”, che solo una fotografia potrebbe specchiare, con simile nitore, più che la retina umana.

Nelle opere di D’Ottavi ritroviamo il tratto deciso e terso del pittore e illustratore americano Norman Rockwell, cantore della vita quotidiana degli Stati Uniti, nella prima metà del Novecento; nonché – specie nei temi trattati - Evaristo Baschenis, il sacerdote bergamasco, che nel Seicento dipinse una serie straordinaria di nature morte, utilizzando come soggetto strumenti musicali. Baschenis, nella fissità dello strumento preso a modello, nell’assenza del suonatore, che conferiva la grazia e il mistero dell’astrazione musicale, elevava lo strumento inerte a ricordo d’una armonia perduta, che evocava l’incanto della sinfonia, sicché era lo spettatore che sostituiva all’arpeggio assente la propria scala musicale: come corpo morto, che vive ancora nel ricordo, e che come tale è percezione di ciò che è ancora, ma altrove.

Fabrizio D’Ottavi – alla maniera anche di un altro grande pittore del XVII secolo, lo spagnolo Francisco de Zurbaran, celebre per la frutta o le porcellane, dipinte con cura microscopica e scientifica – persegue un medesimo assunto: gli oggetti ritratti, per paradosso, al pari di una carrellata di volti di un nucleo familiare, allineati in una galleria privata, continuano a vivere, più che gli originali stessi: è la pittura che trasfigura la materia in un istante continuato: le sedie in legno, le lavagne, il grammofono sono reminiscenza di un’era lontana, ma attualizzata nelle bidimensionalità della pittura, che ne celebra il ricordo, concatenandosi con esso, perché non svanisca, affissandosi su una colta e consolidata tradizione pittorica (la natura morta, nell’antichità, appunto, nasce come effigie del cibo destinato ai trapassati). Pertanto, gli oggetti di D’Ottavi sono memoria personale (il triciclo che spicca fra gli strumenti musicali), che si unisce con la passione del collezionista, per appropriarsi di quel vissuto, ricrearlo, vivificarlo, nuovamente, prima che giunga il termine, naturale, inevitabile, da cui tuttavia il pittore si svincola, dipingendo due candele, ravvivate da solide fiammelle, come ben vediamo, nell’opera, oggi qui esposta, Memento mori: fuoco come emblema vitale, che perfora la morte: e declina un verbo, che articola un motto di resurrezione, nonostante il teschio, o la maschera carnevalesca funeraria veneziana, presenti nel quadro, affermino l’opposto: il tempo divora ogni cosa, eppure, la fiamma dello spirito è invitta (oh morte, dov’è la tua vittoria!, scriveva San Paolo): e brilla dinanzi ai nostri miseri occhi, organi limitati, nella percezione del trascendente, ma che, grazie al mistero della pittura, scorgono l’immateriale: ciò ch’è invisibile, e dunque eterno.

 

Luigi Senise